La legge sul “dopo di noi”? Un fallimento

La legge che doveva cambiare tutto, apparentemente non ha cambiato niente. Eppure nel maggio del 2016, quando la prima normativa organica sul dopo di noi fu licenziata dalla Camera, al governo era tutto un darsi di gomito: avete visto? Pensiamo ai più deboli. Bello. O piuttosto balle. Perché i più deboli non se ne sono accorti. 
Sono circa trecentomila i genitori italiani che spendono l’esistenza di fianco a figli che si limitano ad abitare corpi destinati a diventare un orpello. Adulti con la testa ricca e incompleta di bambini. Persone che vanno lavate, nutrite, accompagnate, seguite, curate e gestite ventiquattro ore al giorno. Esseri umani che, stando alla relazione presentata al Senato nell’aprile del 2016 dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, “vedranno in futuro aumentare il rischio di esclusione ed emarginazione, se la società non sarà in grado di fornire loro il supporto di cure e l’autonomia economica assicurata attualmente dalla rete familiare”. La legge sul “dopo di noi”, con i suoi trust, i suoi fondi vincolati, le sue agevolazioni fiscali per le assicurazioni fino a 750 euro, la sua “deistituzionalizzazione” (strutture monstre sostituite da case famiglia) e i suoi “cohousing”, avrebbe dovuto garantire quel supporto. Chiacchiere. L’obiettivo non è stato neppure sfiorato. Forse perché non si voleva, di sicuro perché non ci si è dotati degli strumenti per farlo.
E’ sempre la relazione di Alleva a spiegare perché il “dopo di noi” non funziona. Ci sono due limiti e un buco nero. In assenza di una anagrafe sulle disabilità è impossibile dire quante siano le persone con problemi gravi in Italia (si stima circa due milioni) e non esiste una fotografia delle difficoltà che affrontano quotidianamente. Le necessità di un ragazzo autistico di 25 anni sono diverse da quelle di un down di 40. Mancano sia l’analisi quantitativa sia l’analisi qualitativa. Senza le quali non è chiaro quanto incidano i finanziamenti previsti: 90 milioni per il 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,18 milioni per il 2018, vale a dire meno di 400 euro l’anno a disabili che, accolti in strutture idonee costerebbero allo Stato 200 euro al giorno. 
Soldi integrativi che integrano ben poco. E’ come se si decidesse di servire cinquanta pasti a una mensa dei poveri dove arrivano mille persone. A 950 rimangono affamate. Dove vanno a mangiare? E’ la stessa domanda che si fa l’Istat _ e questo è il buco nero _ su 40 mila disabili gravi che escono dai radar quando muoiono i genitori. Desaparecidos che, secondo l’associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva o relazionale, sono almeno cinque volte di più: oltre duecentomila. E’ accettabile che un Paese civile non faccia chiarezza? “Temiamo che i desaparecidos della disabilità finiscano in strutture non rilevate, centri per anziani o ex ospedali psichiatrici. La dispersione è enorme. Per altro le strutture sono concentrate al Nord, come se al Centro e al Sud vivessero tutti in famiglia”, dice Roberto Speziale, presidente dell’Anffas. “Però la legge comincia a dare i suoi effetti e le Regioni stanno producendo i piani attuativi. Si vedono già i primi percorsi virtuosi di vite indipendenti e di qualità per le famiglie”. Al Sud, come spesso accade, la situazione è drammatica.
Intanto il premio Nobel per la Medicina, Elizabeth Blackburn, segnala che i caregiver familiari _ padri, madri, fratelli, zii, che si dedicano ai disabili gravi _ hanno una aspettativa di vita più bassa della media di diciassette anni. Importa a qualcuno? A pochi, ma a qualcuno sì.
Laura Bignami, senatrice del gruppo misto, ha depositato in Senato una proposta di legge che di questi 17 anni tiene conto. Norme che in Polonia e in Grecia esistono già, ma da noi no. Il suo ragionamento è semplice. Chi vive meno per seguire i figli deve avere il diritto di andare in pensione cinque anni prima. “Noi chiediamo semplicemente di rendere più umana la dinamica sociale. Per capire quanto vale l’impegno di queste persone basterebbe portassero i loro figli tutti assieme al pronto soccorso e li lasciassero lì. Sarebbe subito chiaro il costo sociale di cui si fanno carico. La mia è solo una provocazione. Ma provate a pensarci. Certi problemi sono forse irrisolvibili. Ma tirare su la testa dalla melma si può”. La sua proposta di legge è lì. Basta votarla. “Il dopo di noi è un piccolo seme, ma i trust, il co-housing e le polizze assicurative si potevano fare anche prima. Bastava avere i soldi. Esattamente come oggi”.
Secondo l’Istat nei prossimi dieci anni i disabili gravi che rimarranno senza parenti saranno 160 mila. La loro aspettativa di vita cresce, mentre l’età media dei loro genitori si alza. Il problema non sono soltanto mamme sempre più adulte e dunque più esposte ai rischi legati a una gravidanza tardiva. Una ricerca pubblicata dal Financial Times segnala come i padri che concepiscono dopo i 40 anni (un esercito in crescita costante) mettono al mondo bambini che corrono un rischio tre volte superiore di sviluppare un disordine dello spettro autistico. Molti disturbi cognitivi che fino a 30 anni fa non erano diagnosticati oggi intervengono a disegnare il quadro sempre più complicato di una realtà che l’Italia continua a ignorare, non recependo la classificazione di disabilità grave riconosciuta dall’Icf, l’international classification functioning. La disabilità non è una malattia. Ma una condizione. Che va definita anche in relazione alle possibilità di interazione sociale considerata individualmente.
Ma la mancanza di un welfare veramente incisivo che non lasci indietro una sola di queste persone che dipendono totalmente dalle famiglie, lascia nella disperazione e nell’incertezza decine di migliaia di genitori che, terribile a dirsi, sperano soltanto di sopravvivere ai loro figli.