Parkinson, nuove speranze dalla stimolazione cerebrale

Importante studio presentato in anteprima mondiale al 3° Congresso dell’Accademia Italiana LIMPE-DISMOV per lo studio della malattia di Parkinson e i disordini del movimento, appena concluso a Verona.
Un nuovo studio dimostra, sull’uomo, la sicurezza della cosiddetta stimolazione intelligente tramite ADBS, acronimo di “adaptive deep brain stimulation”, cioè stimolazione cerebrale profonda adattativa, messa a punto da Alberto Priori dell’Università di Milano, per modulare al bisogno gli impulsi di questa metodica, usata da fine anni ‘90 nella sua forma originale (realizzata all’Università di Grenoble da Alim Louis Benabid e Patricia Limousin) nel trattamento della malattia di Parkinson, per ovviare ai fallimenti del trattamento farmacologico.
Infatti, dopo il primo incontro con il farmaco Levodopa, una fase suggestivamente definita “luna di miele” a indicare l’iniziale efficacia impressionante del farmaco di riferimento per questa patologia, si sviluppa col tempo una sorta di assuefazione e i neuroni dopaminergici che non producono più il neurotrasmettitore dopamina, fondamentale soprattutto per il movimento, smettono di rispondere anche a questo suo analogo, ottenuto in laboratorio a partire dalle fave. Man mano che la Levodopa perde effetto, i principali problemi derivano soprattutto dalla difficoltà di mantenere un suo livello costante nel sangue e tali fluttuazioni provocano discinesie, cioè movimenti incontrollati, blocchi motori, fino al cosiddetto freezing, termine che significa congelamento, episodi in cui il paziente resta bloccato, per lo più quando inizia a camminare, se deve cambiare direzione di marcia o attraversare una porta stretta o uno spazio angusto.
Il tentativo di ovviare a questi problemi, aumentando il dosaggio della Levodopa o associandola ad altri farmaci che ne prolungano l’efficacia come ad esempio i dopamino-agonisti o farmaci attivi su altri neurotrasmettitori implicati parallelamente nella malattia (come l’acetilcolina), si è rivelato una vittoria di Pirro. Le pompe di duodopa che infondono il farmaco attraverso un microcatetere intestinale sotto controllo elettronico hanno migliorato da qualche anno la situazione, ma è stata la DBS, acronimo di “deep brain stimulation”, cioè stimolazione cerebrale profonda, che ha dato un cambio di marcia, riportando con i suoi microimpulsi elettrici i neuroni dopaminergici indietro di anni, se non proprio alla “luna di miele”, quantomeno alle condizioni in cui rispondevano ancora alla Levodopa. Un microstimolatore impiantato sotto la clavicola tramite sottilissimi microcateteri invia al cervello microimpulsi elettrici che riattivano le cellule nervose che nemmeno i farmaci riescono più a risvegliare.
Il nuovo dispositivo, monitorando l’attività elettrica delle cellule dopaminergiche, ha dimostrato di poter aumentare o ridurre la stimolazione a seconda delle esigenze, senza alcun evento avverso né problemi di malfunzionamento per tutte le 8 ore in cui è stato tenuto acceso e durante le quali ha mantenuto la dopamina circolante a un livello pressoché costante, regolando in maniera automatica la stimolazione momento per momento, in base alla risposta dei neuroni stimolati. A Verona è così iniziata ufficialmente una nuova era nella neurostimolazione della malattia di Parkinson, un trattamento che, dice Priori, se tutto procederà per il meglio nelle valutazioni di tollerabilità e sicurezza, una volta risolte le procedure di registrazione sarà disponibile per i pazienti probabilmente nel giro di un paio d’anni, con l’ulteriore vantaggio di una minor necessità di controlli e di messa a punto rispetto alla DBS classica, nonché di risparmio di risorse per il Servizio sanitario nazionale e di disagi per il paziente.
Ma anche la DBS ha i suoi difetti, soprattutto il fatto di essere una stimolazione fissa che non può essere modulata alle varie situazioni della vita. Un paziente che, per esempio, deve affrontare una salita potrebbe aver bisogno di una scossa che liberi più dopamina e, viceversa, meno dopamina se siede in poltrona a leggere un libro, mentre la DBS classica può solo offrirgli una stimolazione prestabilita sempre uguale a se stessa. L’anno scorso il gruppo di Alberto Priori aveva pubblicato sulla rivista Medical Engineering and Physics il primo studio con un prototipo dell’ADBS su un paziente che è stato il pioniere di una metodica che si è dimostrata efficace e sicura una volta stabiliti i migliori parametri di stimolazione. Al congresso di Verona abbiamo assistito al passaggio dalla sperimentazione in laboratorio alla vita reale: dal paziente che faceva pochi passi in ospedale a quelli che possono tornare a camminare per strada. Questo è il primo studio al mondo che ha testato l’ADBS attivato per 8 ore continuative in condizioni di vita reale con i pazienti che potevano liberamente spostarsi.
Non così rapida sarà la disponibilità di un’altra forma di trattamento che, come ha indicato a Verona Angelo Antonini, dell’Università di Padova, non sarà disponibile prima del 2020, nonostante, vista la sua importanza, le sia stata concessa dall’EMA una procedura di approvazione fast track, cioè una corsia preferenziale. Ma anche così, c’è da essere più che soddisfatti perché, se le cose dovessero andare bene , il 2020 potrebbe essere l’anno di una svolta epocale che si aspetta da quando James Parkinson nel 1817 scoprì la malattia che ha preso il suo nome. Sono infatti allo studio farmaci molto interessanti: l’AFFITOPE PD01A per l’alfa-sinucleina,e il BMS986168 e l’ABBV-8E12 per la tau, l’altra proteina anomala che contribuisce alla malattia di Parkinson.
Se infatti l’aDBS vince i sintomi a valle, per risolvere la causa a monte della malattia si punta su quello che ormai è considerato il suo principale fattore scatenante, cioè l’accumulo della proteina anomala alfa-sinucleina. E, parallelamente, si punta sull’altro fattore che si associa all’alfa-sinucleina e che la malattia di Parkinson condivide con quella di Alzheimer e con disturbi del movimento come l’atrofia multisistemica (che stanno a metà strada fra queste due malattie neurodegenerative), cioè l’accumulo di un’altra proteina anomala _ la tau _ su cui agiscono gli anticorpi monoclonali BMS986168 e ABBV-8E12, appena messi a punto.