Paralimpiadi, Chiarotti e la sua epopea sul ghiaccio

Una nazionale nata con un appello alla radio: era il 2003 e mancavano solo tre anni all’Olimpiade invernale, ma a sentire Andrea Chiarotti, 50 anni e una vita dedicata all’hockey sul ghiaccio, “c’era ancora abbastanza tempo per prepararsi”. Mentre il team leader della squadra parla, le lame degli slittini in pista tagliano veloci anche l’aria e “Ciaz”, come chiamano Chiarotti dentro e fuori il Palaghiaccio Tazzoli dove ci incontriamo, racconta questa nazionale paralimpica nata quasi per gioco e ora in partenza per la sua terza Paralimpiade a Pyeongchang, Corea del Sud, dal 9 al 18 marzo. “Giocano veloci diventando dei bufali in picchiata, imbottiti come omini Michelin”, riprende a parlare Ciaz ricordando a memoria un racconto di Baricco sul gioco più veloce del mondo. I ragazzi sono in pista a Torino per un’amichevole con la Norvegia: l’aria fuori è fredda ma è ancora più cattiva dentro al palasport dove non si risparmiano azioni e spallate tra giocatori che arrivano in picchiata contro le balaustre provocando dei tonfi forti e secchi.
“Siamo atleti paralimpici ma non siamo esenti dalle cazzate” scherza il team leader parlando dei falli più cattivi. Il più comune è il “teeing”: quando uno slittino ne punta un altro e lo sperona. Chiarotti ne ha subiti diversi: è a lui che si rivolse la delegazione del Comitato organizzatore dei Giochi di Torino 2006 per formare la nazionale. Essendo Paese ospitante l’Italia aveva la qualificazione di diritto ma non c’era nulla: allenatori, tecnici, attrezzatura, abbigliamento. Ma soprattutto mancava la squadra. Chiarotti andò in Svezia per vedere con i suoi occhi “che razza di gioco fosse”. Ovviamente non gli bastò guardare. Nel ’90 la sua carriera come hockeista normodotato fu di colpo fermata da un incidente stradale. Perse il controllo della moto e cadde da un ponte ma mentre lui era giù, la sua gamba destra rimase su.
Come lui, altri dieci giocatori della squadra hanno perso la piena mobilità delle gambe dopo un incidente stradale. Al ritorno dalla Svezia, Ciaz fece un appello alla radio per formare la squadra. Così si sono conosciuti i Tori seduti, l’Armata Brancaleone e le Aquile del Sudtirolo, i tre club da cui arrivano gli atleti della nazionale del cosiddetto “sledge hockey” (hockey su slittino): c’è Florian Planker, difensore numero 5, portabandiera degli azzurri, bronzo a Salt Lake City 2002 nello sci alpino e atleta paralimpico dopo l’amputazione della gamba sinistra. C’è Andrea Macrì, numero 18, il ragazzo del liceo Darwin a cui il crollo del tetto della scuola ha causato una lesione spinale incompleta. C’è Gabriele Araudo, numero 15, il portiere, a cui un virus da bambino ha compromesso l’uso degli arti. Ci sono Gianluigi, Gianluca, Bruno, Gregory, Valerio, Sandro, Werner, Cristoph, Nils, Roberto, Alessandro, Sebj e Stephan e le loro storie che si sono di colpo intrecciate in pista diventando una cosa sola, un corpo solo. Una squadra che gioca sul ghiaccio praticando uno sport nato in Svezia negli anni Sessanta ma tutt’oggi, almeno in Italia, pressoché sconosciuto. Ha le stesse regole dell’hockey in piedi, ma si gioca su uno slittino di circa cinque chili che monta due lame in grado di scivolare sul ghiaccio alla rincorsa del dischetto: un proiettile che può superare in velocità anche i cento chilometri orari.
E’ per questo motivo che i ragazzi sono imbottiti come omini Michelin: il proiettile, quando colpisce, fa male persino con le protezioni. Poi ci sono le due mazze, le stecche, che montano all’estremità due ramponi in grado di puntare il ghiaccio e dare allo slittino la spinta giusta. Opportunamente girate, nel momento dell’azione, le stecche vengono usate per colpire il disco. Al primo campionato europeo nel 2005 la Nazionale perse tutte le partite: con un bilancio di 56 gol subiti e zero realizzati. Poi però sono arrivati i Campionati e le medaglie: un oro agli europei del 2011, un argento a quelli del 2016. E ora, la partenza per la Corea come la quinta squadra più forte al mondo. “Ci giochiamo tutto _ spiegano i ragazzi, finita la partita con la Norvegia _ e con il ritiro della Russia possiamo anche sperare in un argento”. “Di sicuro _ aggiungono _ speriamo che il viaggio per la Corea vada meglio di quello in Canada”.
Due mesi fa, tra ritardi dei voli in connessione, carrozzine mai arrivate allo scalo e bagagli smarriti, la nazionale è arrivata a destinazione a due ore dalla partita e soprattutto senza slittini. Gli spostamenti, in caso di trasferta, sono l’incognita maggiore per loro, insieme agli allenamenti fatti prendendo ferie o giorni di riposo dal lavoro. “I coreani fanno solo quello di lavoro, noi no”, spiegano con un po’ di amarezza. In Corea quindi, ci andranno in ferie: perché c’è chi lavora in banca, chi nella sicurezza informatica, chi fa contabilità e chi il cuoco. Di sera, dopo il lavoro, nel weekend, si allenano tra Torino, Varese e Bolzano entrando e uscendo dal ghiaccio sulle loro gambe. Che siano protesi, quattro ruote o stampelle poco importa. Hanno vinto 7 a 2 con la Norvegia, in Corea puntano al bronzo ma la loro partita più importante l’hanno giocata tempo fa.