Medici contro il suicidio assistito

Il suicidio assistito non deve essere necessariamente medicalizzato, ciò non toglie che il professionista continuerà a restare vicino al malato in tutte le fasi che il diritto all’autodeterminazione gli consente, fino a dopo la morte, certificandola. Questa la linea dei medici emersa a Parma, durante il convegno nazionale “Il suicidio assistito tra diritto e deontologia. La legge, il consenso e la palliazione”, organizzato sotto l’egida Fnomceo, dall’Omceo Parma e dal Gruppo di lavoro su “Suicidio assistito e eutanasia” della Consulta nazionale deontologica, dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale che si è pronunciata sulla non punibilità dell’aiuto all’interruzione della vita in situazione di grave sofferenza personale, fisica da malattia ad esito infausto, riguardo al caso Cappato Dj Fabo.
“Il medico _ sostiene Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici e degli odontoiatri (Fnomceo) _ ha per missione quella di combattere le malattie, tutelare la vita e alleviare le sofferenze. Quello del suicidio assistito è quindi un processo estraneo a questo impegno. Un compito ricco di un’esperienza millenaria ma anche moderna poiché incarna nell’agire professionale i principi della Costituzione (Art. 32 in primis). Siamo in una società pluralista e la nostra posizione è quella di curare tutti senza discriminazione alcuna secondo scienza e coscienza, a prescindere da credi religiosi, filosofici, culturali, rispettando il diritto del cittadino all’autodeterminazione anche nei casi di suicidio, così come previsto dalla Corte Costituzionale. Ma se è un alto diritto la possibilità di scegliere autonomamente e liberamente sulla propria salute, assicurata dall’obiezione di coscienza, lo stesso principio deve poter valere anche per il medico che si considera fermo sostenitore della tutela della vita”.
Quindi, continua Anelli, “si vuole certamente rispettare la volontà di chi decide di porre fine alla propria esistenza ritenuta troppo penosa e non più degna di essere prolungata, nei limiti previsti dalla Corte Costituzionale, ma si chiede anche di lasciare la nostra categoria estranea a questo atto suicidario. Il medico non abbandonerà mai a se stesso il paziente, assicurerà sempre le cure si palliative per contenere il dolore sino alla sedazione profonda e sarà presente fin dopo il decesso, che certificherà, ma non compirà l’atto fisico di somministrare la morte”.
Il problema è poi chi raccoglierà il consenso? E chi lo aiuterà a morire? Si chiede Anelli. “Una legge dello Stato _ aggiunge il presidente Fnomceo _ dovrà trovare una terza persona (come ad esempio un pubblico ufficiale) per raccogliere la volontà di suicidio, e quanto a chi fisicamente aiuterà il malato a morire, forse è ragionevole supporre che debba essere il paziente stesso a poterlo decidere, a scegliere ad esempio un fratello, il coniuge, un genitore, ma non il medico, a meno che non lo faccia nella posizione di amico o parente del richiedente, non certo nel ruolo di professionista della salute”.
Questo perché, spiega Pierantonio Muzzetto, presidente della Consulta Nazionale Deontologica Fnomceo e dell’Omceo Parma. “il medico di fronte al fine vita, lenisce il dolore, non uccide. Stella polare che guida la nostra categoria è infatti la deontologia che vede al centro il rispetto dei valori della vita del paziente e della sua dignità, nel vivere come nel morire, non accettando d’essere pedine di una legislazione che non tenga conto della coscienza del medico, che segue la logica del fare il bene del paziente sia nella malattia sia nella fase della terminalità”,
Per il medico restano validi, e altrettanto ineludibili, i principi del Codice deontologico, che impediscono al medico di effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte del paziente. “Nel contempo, impongono al medico _ continua Muzzetto _ di rispettare la dignità del paziente, evitando ogni forma di accanimento terapeutico e di trattamento futile e, in ottemperanza dell’autodeterminazione del malato che esprima la volontà di rifiutare le cure, consentono il ricorso alla sedazione profonda medicalmente indotta, che è ben altra cosa dall’eutanasia attiva o passiva, poiché i farmaci e la modalità di somministrazione portano a una situazione di assenza di sofferenza aspettando l’evento naturale e non intervengono certo per ridurre i tempi di vita”
Il vero problema, secondo i medici riuniti a Parma, “è la carenza organizzativa dello Stato. Il capitolo della palliazione è infatti colmo di omissioni e inadempienze: solo una piccola percentuale dei pazienti utilizza questa metodologia di cura rispetto alle reali necessità, a conferma che le due leggi sulla terapia del dolore e la successiva legge sul consenso e sulle Disposizioni anticipate di trattamento sono applicate in modo insufficiente e a macchia di leopardo”, si legge in una nota.
Da qui la necessità che “il legislatore _ continua la nota _ si impegni a incrementarne l’uso, consentendo un’applicazione omogenea del trattamento, con adeguate risorse. Altro punto complesso riguarda la tendenza del legislatore e delle sentenze giurisprudenziali a vedere nel medico un mero “esecutore di volontà altrui”, nel rispetto del diritto del cittadino all’autodeterminazione. Quindi con una funzione non autonoma, perché eterodiretta”.
Cosa farà allora il medico in caso di ipotesi di suicidio? “Darà prova di rispettare la vita e la morte, salvaguardando il valore e la dignità di entrambe, ma non certo metterà in atto azioni che possano deliberatamente portare alla morte del suo assistito, rispettando il Codice deontologico. La conseguenza è che la Fnomceo è orientata ad escludere il coinvolgimento attivo e diretto del medico nel processo suicidario. Il medico infatti risponde alla Costituzione, alle Leggi dello Stato e alle norme deontologiche, dovendosi prevedere lì dove fosse coinvolto l’obiezione di coscienza. Se il suicidio assistito diventa un diritto della collettività, allora sia un diritto socialmente assistito e non medicalmente assistito”, hanno concluso i relatori del convegno.