Le pratiche del “fine vita”, le differenze

Per la prima volta in Italia a un malato è stato dato il via libera per il suicidio medicalmente assistito. Si tratta di Mario, tetraplegico e costretto all’immobilità pressoché assoluta da dieci anni, la cui Azienda sanitaria di riferimento _ la Asur Marche _ tramite il suo Comitato scientifico, ha stabilito la sussistenza delle condizioni necessarie per farlo accedere al farmaco letale ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale del 25 settembre 2019 sul caso Cappato.
Facile può essere tuttavia confondere la fattispecie in oggetto con altre due pratiche da lungo tempo al centro del dibattito sul fine vita: l’eutanasia e la sedazione profonda. Quali dunque le differenze tra le tre? E come sono regolate dal punto di vista normativo nel nostro Paese?
L’EUTANASIA
L’eutanasia (dal greco “eu thanatos”, cioè “buona morte”) è l’atto di procurare intenzionalmente il decesso di un paziente consapevole e informato su sua libera richiesta.
Alcune nazioni distinguono formalmente tra eutanasia “attiva” ed eutanasia “passiva”: nel primo caso il medico o un’altra persona incaricata procedono alla somministrazione del farmaco letale, di solito attraverso iniezione endovenosa, causando direttamente il decesso della persona; nel secondo, invece, si limitano a sospendere le cure o a spegnere le macchine che la mantengono in vita.
Entrambe le modalità in Italia costituiscono reato e rientrano nelle ipotesi previste e punite dall’articolo 579 (Omicidio del consenziente) o dall’articolo 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) del Codice Penale.
IL SUICIDIO ASSISTITO
Come illustrato qui, il suicidio assistito si differenzia dall’eutanasia in quanto in questo caso è l’interessato stesso (sempre su richiesta libera e informata) a compiere l’atto “decisivo” a cagionare la propria morte, avvalendosi della collaborazione di uno o più soggetti terzi che, tra le altre cose, gli prescrivano e gli porgano il farmaco richiesto nel rispetto delle condizioni previste dal legislatore.
In Italia anche questa pratica non è contemplata da alcuna norma, ma la già citata sentenza della Consulta del 2019 ha di fatto individuato otto condizioni che non la rendono punibile. Quattro sono relative allo stato di salute del malato, che deve essere:
1) Tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali;
2) Affetto da una patologia irreversibile;
3) Affetto da una patologia “fonte di sofferenze intollerabili”;
4) Pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Le restanti quattro attengono invece alla dimensione procedurale da parte di chi assiste il paziente. Nello specifico, il trattamento va subordinato:
1) Al rispetto delle modalità previste sul consenso informato sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua;
2) Alla verifica delle condizioni richieste (ossia le quattro appena citate);
3) Alla verifica delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale;
4) Al parere del comitato etico territorialmente competente.
LA SEDAZIONE
La sedazione, infine, si differenzia tanto dall’eutanasia quanto dal suicidio assistito perché non mira a provocare la morte dell’individuo, bensì a non costringerlo a soffrire nel caso in cui tutte le altre terapie si rivelino inefficaci.
Ammessa per questo motivo dalla nostra legislazione, può essere anch’essa suddivisa in due fattispecie: “palliativa” quando finalizzata a ridurre il dolore e/o la sofferenza dell’interessato e “profonda” quando mirata ad annullarne del tutto la coscienza, inducendo uno stato simile all’anestesia profonda o al coma farmacologico. Nel caso in cui destinate a protrarsi fino al “normale” sopraggiungere del decesso, si definiscono anche “continue”.
Fonte: Corriere della Sera