Ipertensione arteriosa, le nuove linee guida

Tutti sono d’accordo su un dato e, cioè, che l’ipertensione arteriosa sia uno dei principali fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, se non il più importante. Lo si sa da tempo, da quando gli americani lo hanno dimostrato dopo avere tenuto sotto controllo, a partire dalla fine degli anni Quaranta, l’intera a popolazione di Framingham, una cittadina del Massachusetts, proprio alla ricerca di che cosa favorisse la comparsa di ictus e infarti.
Il problema, però, è un altro: stabilire fino a che punto i valori di pressione possono essere considerati normali e quando, invece, si deve cominciare a parlare di ipertensione. Su questo punto le regole sono cambiate nel corso degli anni. Le ultime le hanno appena dettate l’American College of Cardiology e l’American Heart Association e stanno facendo molto discutere. Anzi, secondo alcuni esperti i nuovi parametri per definire l’ipertensione (e di conseguenza le terapie) sono troppo restrittivi e rischiano di creare danni, soprattutto nella popolazione anziana, come hanno appena ipotizzato due nefrologi dell’University of Chicago, George Bakris e Matthew Sorrentino sul New England Journal of Medicine. Vediamo allora che cosa dicono le linee guida americane e quanto si discostano da quelle che oggi guidano il medico italiano e che si rifanno a quelle europee del 2013.
Le differenze
In attesa di nuove direttive che l’European Society of Cardiology e l’European Society of Hypertension (Esh) stanno mettendo a punto e presenteranno nel giugno prossimo a Barcellona in occasione del congresso dell’Esh. Punto primo: secondo gli americani è da considerare pressione «normale» quella sotto i 120 millimetri di mercurio (mmHg) di massima (pressione sistolica, quando il cuore si contrae) e sotto gli 80 di minima (pressione diastolica, quando il cuore si rilascia). Gli europei, invece, ritengono “ottimale” una pressione al di sotto dei 120 e degli 80, ma ritengono ancora «normali» valori fino a 130-84 e “normali alti” fino a 139-89.
Quando è preoccupante
Secondo: fra i 120 e i 129 di massima e sotto gli 80 di minima si comincia a parlare di pressione elevata (che potrebbe richiedere un trattamento farmacologico se è già presente un rischio cardiovascolare, altrimenti è sufficiente intervenire sullo stile di vita). Terzo: se la massima è compresa fra 130 e 139 e la minima fra 80 e 89, si tratta di ipertensione di stadio 1 (da trattare con farmaci). Quarto: oltre i 140 di massima e oltre gli 80 di minima si passa allo stadio 2 dell’ipertensione (che richiede un trattamento farmacologico).
In Italia
“Al momento noi interveniamo con la terapia farmacologica più tardi, a partire da una massima pari o superiore a 140 mmHg e a una minima pari o superiore a 90 mmHg _ commenta Giuseppe Mancia, professore emerito dell’Università di Milano Bicocca e chairman del gruppo di studio dell’Esh che sta mettendo a punto le nuove linee guida _. Di fronte a valori normali alti cerchiamo di agire sullo stile di vita (diminuire di peso, se è il caso, fare attività fisica, smettere di fumare”. Con le nuove raccomandazioni americane, dunque, non soltanto aumenta il numero di persone che dovrebbero assumere farmaci, ma, oltre i 140 di massima, andrebbero trattati tutti i pazienti, anche i più anziani. “Attualmente, nei pazienti anziani _ continua Mancia _ cominciamo il trattamento quando la pressione è a 160 mm Hg e oltre e cerchiamo di arrivare sotto i 150 di massima. Occorre fare molta attenzione a diminuire la pressione nell’anziano, perché il rischio (soprattutto quando la minima va sotto i 70) è quello di ridurre troppo l’afflusso del sangue in organi come il cervello, il cuore o il rene”.
Come comportarsi
Il problema è proprio questo: quanto ridurre la pressione per non avere danni e ottenere il massimo dei benefici? “Una serie di studi clinici ha dimostrato che abbassare la pressione sotto i 140 di massima e i 90 di minima comporta un vantaggio in termini di riduzione del rischio cardiovascolare _ commenta Enrico Agabiti Rosei, Past Presidente dell’Esh _. Questo beneficio può ancora aumentare, con un’ulteriore riduzione della pressione, ma sempre meno”. Ecco allora due regole importanti da ricordare di fronte a un paziente iperteso. “La prima è quella di individualizzare il trattamento, caso per caso, facendosi guidare dalla clinica _ continua Agabiti Rosei _. La seconda suggerisce di cominciare la terapia il più presto possibile, prima che si sia instaurato un danno d’organo come un’ipertrofia cardiaca o alterazioni vascolari e renali. Questi danni, poi, non regrediscono con la terapia e costituiscono il cosiddetto rischio residuo”. Una terza, valida, indicazione arriva proprio dalle nuove dalle linee guida americane: “Il suggerimento è quello di utilizzare subito due farmaci antipertensivi di fronte a livelli pressori superiori a 140 _ precisa Mancia _. E non, come spesso si fa, cominciare con uno e poi associarne un secondo. La combinazione non solo è più efficace, ma aumenta l’aderenza alla terapia”. Non tutto quello che codificano le nuove regole Usa (che ovviamente si sono basate su una serie di ricerche, compreso uno studio chiamato Sprint) è, dunque, criticabile: ci sono anche aspetti positivi. Aspettiamo adesso di conoscere se qualcosa cambierà anche per i pazienti europei e italiani con le nuove raccomandazioni dell’Esh.