Le Residenze Sanitarie Assistenziali (Rsa) sono Istituti di ricovero, pubblici o privati, una volta denominati Case di Riposo o Strutture Protette, che accolgono persone anziane non autosufficienti, non più in grado di rimanere al proprio domicilio, a causa delle loro condizioni di salute e di autonomia. I ricoveri possono essere temporanei o a tempo indeterminato. Ma chi deve pagare per il ricovero, i famigliari o le strutture? La risposta viene anche dalla Corte di Cassazione: tocca al Servizio sanitario nazionale farsi carico di tutti i costi. Eppure aumentano i casi dei famigliari che si vedono presentare il conto. Molti, al momento del ricovero del loro congiunto, hanno dovuto sottoscrivere l’impegno a integrare la retta, già gravosa, della cosiddetta quota “alberghiera” a loro carico, che si affianca alla quota sanitaria, rimborsata alla struttura dal Servizio sanitario regionale.
La sentenza della Cassazione: “Le persone che si rivolgono per questo problema ai nostri sportelli stanno aumentando in modo esponenziale _ ha detto la vicepresidente dell’associazione Confconsumatori, Francesca Arnaboldi _. Molti hanno visto il proprio reddito calare nettamente per effetto della crisi; sono disperati perché non riescono a pagare per i loro congiunti e temono di vederli dimettere dalle strutture: a casa non riuscirebbero ad assisterli perché, nella maggior parte dei casi, la malattia è a uno stadio avanzato e difficilmente gestibile, soprattutto in assenza del supporto di servizi socio-sanitari sul territorio”. Eppure, una Sentenza della Corte di Cassazione, la n. 4558 del 22 marzo 2012, ha stabilito che i malati di Alzheimer (e i loro parenti)- non devono versare alcuna retta alle Rsa o alle Casa di cura convenzionate (ovviamente non vale per quelle private). “La Cassazione _ chiarisce l’avvocato Giovanni Franchi, consulente legale di Confconsumatori Parma _ ha ribadito che nella patologia di Alzheimer non sono scindibili le attività socio-assistenziali da quelle sanitarie, per cui si tratta di prestazioni totalmente a carico del Servizio Sanitario Nazionale”. La sentenza, però, nella maggior parte dei casi è disattesa, anche perché esistono leggi regionali o regolamenti comunali che prevedono la compartecipazione dei malati per la quota alberghiera. “E’ vero che spesso le strutture si trovano a operare in un quadro normativo confuso, perfino contraddittorio _ dice il legale _. Ma la Cassazione richiama “il diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana”. Quindi, non è possibile alcuna rivalsa nei confronti del paziente o, se questi è nel frattempo deceduto, dei parenti. Inoltre, la “promessa di pagamento” sottoscritta dai familiari al momento del ricovero del congiunto è da ritenersi “nulla” perché illegittima”. Fin qui il diritto.
Qualche consiglio per i familiari in difficoltà
Come si devono comportare, allora, i familiari cui viene richiesta l’integrazione della retta? “Dopo la sentenza della Cassazione, ci siamo attivati per trovare soluzioni in base alle esigenze delle famiglie e alla normativa applicabile _ ha spiegato Francesca Arnaboldi _. Innanzitutto, suggeriamo di chiedere aiuto ai servizi sociali del Comune di residenza, per verificare se l’ente può farsi carico dell’integrazione della retta. In alcuni casi è stato possibile raggiungere una soluzione bonaria tra le parti. Quando non ci sono alternative, consigliamo di mandare alla Rsa la lettera di recesso dall’impegno sottoscritto, in cui si comunica che nulla verrà più pagato»”. Qualche struttura che ha ricevuto la lettera di sospensione dei pagamenti ha minacciato le dimissioni del malato. “Non possono farlo, perché commetterebbero il reato di abbandono di persone incapaci, perseguibile a livello penale”, precisa l’avvocato.